giovedì 23 febbraio 2012


Marco e la sua pancia vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. Marco ha visto quella pancia rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno lo guardava ha pensato di prenderla con sé, perché «il lardo, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge». E adesso avrà molto da insegnare a quel lardume cocciuto e solo: come rotolare, come armarsi per le guerre che l'aspettano, come imparare l'umiltà di accogliere sia la magrezza che l’adipe.
D'altra parte, «non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto sugna e rotoli a ogni angolo di strada».

La panza e Marco arrancano per i campetti del paese seguiti da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Marco ha preso la panza con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno.
Quarto figlio eunuco di madre magra, Marco è abituato a pesarsi, lui per primo, come «l'ultima». Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia panza del paese, che gli ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto lo lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. «Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill'e anima, un modo meno colpevole di essere marco e panza».
Eppure c'è qualcosa in questa pancia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Marco intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte.
Quello che tutti sanno e che Marco non immagina, è che quella panza gli succhia le energie, conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrargli in circolo per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.
La comunità dei ringhioz è un mondo antico sull'orlo del precipizio, ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle. Sa come unire due solitudini, sa quali vincoli non si possono violare, sa dare una fine a chi la cerca.
Michela Murgia, con una lingua scabra e poetica insieme, usa tutta la forza della letteratura per affrontare un tema così complesso senza semplificarlo. E trova le parole per interrogare il nostro mondo mentre racconta di quell'universo lontano e del suo equilibrio segreto e sostanziale, dove le domande avevano risposte chiare come le tessere di un abbecedario, l'alfabeto elementare di «quando gli oggetti e il loro nome erano misteri non ancora separati dalla violenza sottile del diventare obeso».

6 commenti:

Anonimo ha detto...

I ringhioz iniziano a spaventarmi.

Anonimo ha detto...

tutt'a un tratto....e abbecedario? orrore....
il circolo della crusca

Anonimo ha detto...

un po' pàdre Màronno

Anonimo ha detto...

è proprio il caso di dire che l'adipe non fa il monaco...

p.

Anonimo ha detto...

Comunque ..... " uomo de panza... Uomo de sostanza!!! ... Ammetto la mia ignoranza, ma pur applicandomi con costanza non afferro nulla della vostra istanza , quindi mi rifugio nell'indifferenza, cercando di simulare una superiore sapienza, il tutto in prospicenza alla vostra presenza!!!
C

Anonimo ha detto...

una lettura che lascia un segno indelebile